Collisioni tra navi e grandi cetacei: nelle aree ad alto rischio, meno del 7% dispone di misure di protezione
Uno studio internazionale – pubblicato sulla prestigiosa rivista Science – a cui ha partecipato anche Simone Panigada, presidente dell’Istituto Tethys, individua le zone più esposte a livello mondiale – indicando anche le soluzioni, più facili di quanto si potrebbe pensare
Ogni anno migliaia di balene vengono ferite o uccise a causa delle collisioni con imbarcazioni, in particolare con grandi porta-container, che oggi trasportano attraverso gli oceani l’80% delle merci commercializzate. Le collisioni rappresentano la principale causa di morte per balene, balenottere e capodogli e, per inciso, il Mediterraneo non fa eccezione. Uno degli ostacoli per la protezione delle specie più vulnerabili è anche la difficoltà di ottenere dati sugli incidenti a livello mondiale. Un nuovo importante studio condotto dall’Università di Washington, a cui ha partecipato anche Tethys, ha quantificato, per la prima volta, il rischio di collisioni tra navi e grandi cetacei a livello globale per quattro delle specie più diffuse e minacciate dal traffico marittimo: balenottera azzurra, balenottera comune, megattera e capodoglio.
La ricerca, pubblicata in novembre sulla prestigiosa rivista scientifica Science, evidenzia come il traffico marittimo mondiale si sovrapponga per il 92% circa agli areali di queste specie. “In altre parole, ogni anno le navi percorrono distanze equivalenti a migliaia di volte il tragitto avanti e indietro per la luna, attraversando le aree di distribuzione di queste specie, e il problema è destinato a crescere con l’impennata dei trasporti via mare prevista per i prossimi decenni”, dichiara Briana Abrahms, dell’Università di Washington, ricercatrice al Center for Ecosystem Sentinels, e co-autrice del lavoro.
“Le collisioni tra balene e navi sono state studiate per lo più a livello locale, e la distribuzione del rischio resta sconosciuta per ampie aree”, afferma Anna Nisi, prima autrice del lavoro e ricercatrice del Center for Ecosystem Sentinels dell’Università di Washington. “Il nostro studio cerca di colmare queste lacune su scala globale. Una volta individuato dove è più probabile che si verifichino delle collisioni, ci sono interventi semplici che potrebbero ridurre notevolmente il rischio.”
Attualmente, si è visto, solo il 7 % circa delle aree a più alto rischio di collisioni dispone di misure di protezione, tra cui la riduzione della velocità per le navi, obbligatoria o volontaria che sia. “Nonostante le preoccupazioni emerse dallo studio, abbiamo anche individuato alcune importanti opportunità”, continua la Abrahms, “come il fatto che implementare delle misure di gestione su anche solo un ulteriore 2,6% della superficie degli oceani basterebbe a proteggere tutte le aree a maggior rischio.”
“Solitamente, è difficile mettere d’accordo industria e conservazione“, aggiunge Heather Welch, co-autrice e ricercatrice del NOAA e dell’Università della California, Santa Cruz. “Per raggiungere obiettivi di conservazione concreti, spesso le attività industriali devono essere limitate in modo significativo, o viceversa. In questo caso, c’è un beneficio di conservazione potenzialmente significativo per le balene, con costi molto contenuti per l’industria marittima.”
Le aree ad alto rischio di collisioni per le quattro specie di cetacei considerate si trovano principalmente lungo le coste del Mediterraneo, di alcune zone delle Americhe, dell’Africa meridionale e dell’Asia. Il team internazionale di ricerca, che comprende esperti dai cinque continenti, ha raccolto qualcosa come 435.000 avvistamenti, provenienti dalle fonti più disparate – monitoraggi governativi, segnalazioni da parte del pubblico, studi di marcatura satellitare e persino vecchi registri della baleneria. Per individuare le zone dove maggiore è la probabilità di incontro tra balene e navi, tali dati sono stati sovrapposti ai percorsi di 176.000 navi mercantili tracciate, dal 2017 al 2022, attraverso i sistemi di identificazione automatica delle navi (AIS), ed elaborati con un algoritmo di Global Fishing Watch.
Lo studio ha così identificato alcune delle aree ad alto rischio già note, tra cui il Mediterraneo, assieme alla costa pacifica del Nord America, il Panama, il Mar Arabico, lo Sri Lanka, le Canarie. Ha però anche messo in evidenza regioni meno studiate ma altrettanto a rischio, tra cui l’Africa meridionale, la costa del Brasile, del Cile, del Perù e dell’Ecuador, le Azzorre, l’Asia orientale, e le coste di Cina, Giappone e Corea del Sud.
Misure obbligatorie per la riduzione delle collisioni sono molto rare, e coprono attualmente solo lo 0,54% degli “hotspot” della balenottera azzurra e lo 0,27% della megattera, e nessuno della balenottera comune o del capodoglio. Molti hotspot di collisione rientrano in aree marine protette, che però, essendo state istituite soprattutto per limitare pesca e inquinamento industriale, non prevedono limiti di velocità per le navi.
Per tutte e quattro le specie, la stragrande maggioranza delle zone a rischio collisioni – cioè più del 95% – si trova lungo le coste, e quindi all’interno delle zone economiche esclusive nazionali. Ciò significa che ogni Paese ha la possibilità di implementare misure di protezione in coordinamento con l’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) delle Nazioni Unite. “Questo è un aspetto positivo”, afferma Nisi “perché significa che i singoli Paesi hanno la possibilità di intervenire concretamente.”
Le poche misure attualmente esistenti sono per lo più limitate alla costa pacifica del Nord America e – forse sorprendentemente – al Mar Mediterraneo. “Lungo la costa orientale della Grecia ionica sono state spostate più al largo alcune rotte delle navi, riducendo così significativamente la sovrapposizione con l’areale dei capodogli. In Mar Ligure invece, dove il rischio di collisioni è particolarmente alto, ci sono al momento degli studi in corso, che si concentrano sulle tecnologie per munire le imbarcazioni di un sistema di allerta, che informi l’equipaggio della presenza di una balena in tempo per ridurre la velocità”, aggiunge Simone Panigada, coautore della pubblicazione e Presidente dell’Istituto Tethys. “Una velocità ridotta delle navi comporterebbe anche altri benefici, come un minor inquinamento acustico subacqueo, la diminuzione delle emissioni di gas serra e il miglioramento della qualità dell’aria, a tutto vantaggio delle popolazioni che vivono lungo le coste” aggiunge Nisi.
“Proteggere le balene dalle collisioni con le navi è una grande sfida globale che richiederà uno sforzo concertato da parte di organizzazioni di conservazione, governi e compagnie di navigazione”, conclude Jono Wilson della The Nature Conservancy, tra gli enti finanziatori dello studio. “Le balene svolgono un ruolo cruciale negli ecosistemi marini. Grazie a questo studio, abbiamo individuato le aree maggiormente a rischio di collisioni per i grandi cetacei, quelle sui cui concentrarsi per ottenere il massimo beneficio.”
Studio finanziato da The Nature Conservancy, NOAA, Benioff Ocean Science Laboratory, National Marine Fisheries Service, Oceankind, Bloomberg Philanthropy, Heritage Expeditions, Ocean Park Hong Kong, National Geographic, NEID Global e Schmidt Foundation.